di Sergio Bellavita
dal sito nazionale della Rete28Aprile
"Il paese precipita, crisi al punto di non ritorno".
Lo dicono senza mezzi termini due ministri del governo Letta: Giovannini e Zanonato rispettivamente ministro del lavoro e dello sviluppo, nello stesso giorno in cui sono stati resi noti i disastrosi dati sulla disoccupazione, sopratutto giovanile. Due ministeri chiave sul terreno sociale ed economico che quotidianamente gestiscono, o meglio dovrebbero farlo, vicende delle dimensioni dell'Ilva, Fiat, Indesit, Natuzzi, senza considerare le centinaia di silenziose chiusure di stabilimenti, di licenziamenti, il continuo crescere dell'intervento degli ammortizzatori sociali. Due ministri che tuttavia si muovono in totale continuità con le scelte di fondo dei governi precedenti. Lo stesso presidente di Confindustria Squinzi ha confessato nei giorni scorsi la drammaticità della situazione, dal punto di vista produttivo e occupazionale, rispetto alla quale non si vede la fine del tunnel. Più attenuate, per assurdo, le dichiarazioni dei vertici di Cgil Cisl Uil, evidentemente preoccupati di dover corrispondere in qualche modo alla crescente domanda sociale e di dover dimostrare ad ogni costo di avere peso e ruolo nei confronti delle scelte del governo, sino alla persino entusiastica adesione ai provvedimenti, peraltro inutili e dannosi, decisi dal governo con il decreto lavoro.
Così, grazie alla complice copertura di gran parte dei mass media, le dichiarazioni dei due ministri conquistano ben poco spazio e vengono relegate nelle pagine interne, dopo la triste finta diatriba intorno alla Santanchè.
Il presidente del consiglio Letta ha ottenuto il via libera da Barroso, dalla UE, ad una maggiore flessibilità sul bilancio 2014, concessa a paesi come l'Italia rientrati dalla procedura di deficit eccessivo, in modo da non conteggiare le risorse investite per la cosiddetta crescita. Una sorta di deroga all'intransigente rigidità di un'Unione Europea senza più fiato che festeggia da un lato l'allargamento alla Croazia e dall'altro si prepara a fronteggiare l'ennesima e questa volta forse definitiva crisi dell'euro, ormai da molti preannunciata come imminente. Una conquista quella di Letta, davvero risibile rispetto alla dimensione della crisi, che viene enfatizzata proprio nel difficile tentativo di dare lustro ad un governo precipitato nei consensi dopo soli tre mesi e poco più di attività, se così si può dire.
Senza una rottura netta delle compatibilità imposte dalla Banca Centrale Europea e dall'Unione Europea, senza la cancellazione del Fiscal Compact e del debito pubblico, non può esserci alcuna politica economica e sociale in grado di rispondere ai bisogni sociali.
Tutti lo sanno, ma tutti aspettano, paralizzati, che qualcosa accada.
Così, nella paralisi generale delle forze politiche e sociali, nella loro colpevole complicità alle politiche d'austerità, nell'assenza di qualsivoglia opposizione al governo dell'inciucio, la crisi del Paese è davvero ad un punto di non ritorno. Non solo sul terreno economico e produttivo perché i posti di lavoro persi non torneranno, così come non tornerà quella parte del sistema produttivo cancellata, trasferita. C'è un'altra dimensione della crisi che è senza ritorno, ed è quella della rappresentanza. La paralisi generale è l'altra faccia della rottura netta del rapporto tra rappresentanti e rappresentati, tra sindacato e lavoratori, tra popolo e partiti. C'è un crollo del tasso di credibilità di tutte le organizzazioni, della forma stessa del fare sindacato e politica. Un crollo da cui nessuno è escluso, compresi coloro che pure non sono complici e responsabili dello sfascio del Paese. Da una condizione così si esce solo con un'esplosione sociale che rimette in campo il protagonismo diretto delle nuove generazioni, dei lavoratori e delle lavoratrici.
Ieri nella relazione alla Camera dei deputati il presidente della Commissione di garanzia sullo sciopero nei servizi pubblici (autorità antisciopero in sostanza) Roberto Alesse ha denunciato un crescendo del conflitto ed in particolare del ricorso a lotte selvagge, che se ne infischiano dei divieti e dei limiti imposti al diritto di sciopero. Tutto ciò conferma non solo che il conflitto non è scomparso, ma che chi lotta lo fa in maniera sempre più radicale. Ragioni che portano Alesse a chiedere con urgenza che il patto su democrazia e rappresentanza del 31 maggio tra Cgil Cisl Uil e Confindustria diventi legge, a dimostrazione di quale sia la vera natura di quell'intesa. Una ragione in più per noi per continuare a contrastare quell'accordo e a lavorare per quell'esplosione sociale quanto mai necessaria.
Sergio Bellavita
Rete 28 aprile Fiom
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