di Giorgio Cremaschi
Il regolamento applicativo dell'accordo sulla rappresentanza sindacale ha provocato in pieno congresso il big bang nel gruppo dirigente della CGIL.
Dopo anni di contrapposizione tra gruppo dirigente della FIOM e gruppo dirigente confederale si era siglata la pace con il documento congressuale sottoscritto sia da Susanna Camusso sia da Maurizio Landini. Solo la piccola minoranza del documento alternativo "Il sindacato è un'altra cosa" si era opposta.
Ora Maurizio Landini definisce come incostituzionale l'intesa che trasforma quell'accordo in regole cogenti e aggiunge che così il modello dell'accordo separato di Pomigliano viene esteso a tutti. Ha ragione, potremmo chiamare Marchionnum le nuove regole sulla rappresentanza sindacale, ma tutti i principi che hanno portato a questa conclusione erano già contenuti nell'intesa del 31 maggio e in quella precedente del 28 giugno 2011, intese assunte ed approvate dal documento congressuale di maggioranza.
Il congresso della CGIL deflagra così a seguito dell'intesa firmata il 10 gennaio ed è giusto, perché quelle regole cambiano la natura stessa del sindacato.
Da tempo la CGIL aveva subordinato il conflitto sociale alla concertazione, assumendo la fisionomia di una grande forza sociale che fa pressione sulla politica. Negli ultimi venti anni questa scelta ha portato la CGIL e tutti i sindacati confederali ad assumere un ruolo centrale nel sistema di potere del Paese, cosa che ha fatto persino sopravvalutare la loro forza reale. Al tavolo triangolare della concertazione, tra aziende, sindacati e governo si amministravano e cogestivano le tendenze di fondo, ma non le si cambiavano. Così mentre CGIL CISl UIL si rafforzavano nei palazzi, il mondo del lavoro scivolava in basso nella società; caduta dei salari e precarizzazione di massa, privatizzazioni e perdita di diritti sociali dilagavano.
Con la crisi, con la svolta autoritaria della Fiat e con le politiche di austerità la concertazione è saltata per aria. A CGIL CISL UIL è venuta meno anche l'apparenza del contare.
Ovunque si ricorda con rabbia la passività e la impotenza con cui CGIL CISL UIL subirono la riforma Fornero delle pensioni. Quella vicenda è diventata il paradigma di un sindacato confederale che non conta più niente. E che per questo subisce una contestazione di fondo da parti opposte. Da chi pensa che sia giunta l'ora di togliere di mezzo un soggetto fortemente indebolito, ma ancora ingombrante. E da chi invece vorrebbe che la forza residua del sindacato confederale venisse usata davvero.
Impauriti e sentendosi sotto assedio, i dirigenti della CGIL hanno scelto di seguire la via di fuga già individuata da quelli di CISL e UIL: il passaggio dal regime della concertazione a quello della complicità aziendale.
Fu un testo programmatico dell'allora ministro Sacconi ad usare per la prima volta in senso positivo questo termine. Poi vennero gli accordi Fiat rifiutati dalla FIOM, che in cambio della promessa del lavoro peggioravano brutalmente tutte le condizioni e i diritti del lavoro e permettevano di esistere solo ai sindacati firmatari.
Ora quel principio, solo i firmatari hanno i diritti sindacali, viene istituzionalizzato ed esteso dall'accordo confederale sulla rappresentanza. E davvero poco pare contare la recente sentenza della Corte Costituzionale, che proprio quel principio ha condannato. Del resto non si sta facendo la stessa cosa a livello politico, con i principali partiti impegnati a realizzare una riforma elettorale che eluda la sentenza che ha condannato il porcellum? Con il Marchionnum le "parti sociali" sono state più veloci. La Costituzione non si abbatte, si aggira.
Parti sociali è il nuovo logo con cui il regime della complicità sostituisce quello della concertazione sindacale. Questo termine, di antica provenienza democristiana, descrive un sistema nel quale da un lato ci sono le istituzioni politiche, dall'altro quelle economico sociali unite tra loro. Imprese e sindacati diventano una sola istanza corporativa comune, il vecchio tavolo triangolare della concertazione perde un lato, quello della residua autonomia sindacale. Rappresentanti dei padroni e dei lavoratori siedono dalla stessa parte, sono tutti nella stessa barca.
Per questo al centro dell'accordo stanno le deroghe ai contratti nazionali mentre viene messa sotto accusa la libertà di sciopero. Le condizioni di lavoro vengono di continuo peggiorate, ma il conflitto tra i firmatari del patto sulla rappresentanza non è ammesso. Chi confligge va punito e chi dissente verrà giudicato da una commissione di arbitri dove la Confindustria ha una preventiva maggioranza politica. Il sindacato viene governato da una catena di comando che parte dai vertici confederali e giunge fino ai delegati nei luoghi di lavoro. Tutti devono rispondere a direttive che vengono dall'alto, tutti sono nei fatti nominati, come il parlamento votato con il Porcellum.
Da quando si insediò il governo Monti il debito pubblico è aumentato di 200 miliardi. Cosa c'entra? C'entra perché la riduzione del debito è la giustificazione principale delle politiche di austerità. Di quelle politiche che han portato i disoccupati a 6 milioni e fatto sprofondare in basso salari e pensioni. Ma se tutto il mondo del lavoro è più povero e il debito è aumentato, dove son finiti i soldi? Ai ricchi, alla finanza e alle banche.
200 miliardi di debito in più sono serviti per finanziare una colossale redistribuzione della ricchezza dal basso verso l'alto. È la lotta di classe vincente dei ricchi contro i poveri, l'unica autorizzata.
Si capisce allora a cosa serve il patto sulla rappresentanza. Serve a impedire la reciprocità della lotta di classe dei poveri contro i ricchi: chi la vuole fare è fuori dal sistema.
Il Marchionnum trasforma le politiche di austerità in un autoritario sistema di relazioni sindacali: è incostituzionale non solo nelle sue norme, ma nel suo spirito di fondo. Per questo va combattuto come e più del porcellum elettorale.
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