giovedì 2 gennaio 2014

DA CREMASCHI A MOSCATO A NOI: LE DIFFICOLTÀ DEL XVII CONGRESSO CGIL


Pubblichiamo l'articolo di Giorgio Cremaschi Questo congresso della Cgil e il relativo commento del Professor Antonio Moscato, Una polemica con chi non capisce la battaglia in Cgil, sulle difficoltà che si incontrano sulla via coraggiosa del documento alternativo. Anche noi ci scontriamo quotidianamente con le stesse cose, con compagni che ci dicono di non andare a rompere le scatole con la mozione alternativa nei luoghi dove ci sono loro. Vogliono che noi si vada a presentarla contro i burocrati. Non viene in mente a questi strani compagni che schierandosi con la prima mozione sono schierati di fatto con la burocrazia, e sarebbe un torto marcio verso l'apparato considerarli quindi diversi. Questi compagni son convinti a suon di frasi fatte che Cremaschi lo faccia per personalismo, pensano che non sia vero che Landini abbia aperto a Renzi, ci accusano di leggere la Repubblica e di prenderla pure per buona. E tantissimI altri pseudo argomenti trovano per parlare d'altro. E certo se anche noi leggessimo il corriere dell'opportunismo sindacale, anche noi impareremmo ad arrampicarci sui vetri, anche noi impareremmo, anche noi...


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QUESTO CONGRESSO DELLA CGIL
di Giorgio Cremaschi


È comprensibile il sentimento di quelle compagne e di quei compagni che si chiedono se abbia senso partecipare a questo congresso della CGIL. Tuttavia penso non abbiano ragione e cercherò di spiegare perché. Non c'è dubbio che tutta la crisi della CGIL sia ben rappresentata dal documento di maggioranza e dal patto sottoscritto tra tutti i gruppi dirigenti nel sostenerlo. Nel momento in cui il nostro sindacato registra il livello più basso della sua capacità di iniziativa e di incidere sulla realtà, con il mondo del lavoro che subisce il più duro attacco dal 45 ad oggi, sarebbe stato necessario un congresso verità che partisse dalla ammissione delle terribili sconfitte subite. Partendo da lì si sarebbero misurate differenze e convergenze nei gruppi dirigenti. Invece si son tutti messi d'accordo di non discutere, sostanzialmente di passare il congresso senza farlo.

Il documento che si proclama "unitario" è un testo che va bene a tutta la burocrazia perché approva tutto, a partire dagli accordi del 28 giugno 2011 e del 31 maggio 2013, non sceglie nulla, non si impegna in niente, esprime davvero un solo concetto: si va avanti così. 

La maggioranza che ha diretto il più grande sindacato italiano subendo la controriforma delle pensioni, accettando quella dell'articolo 18, non contrastando mai davvero le politiche di austerità, non è chiamata a rispondere di nulla.

Bisogna dire che la responsabilità principale di un congresso così inutilmente concepito , non sta in chi ovviamente difende le scelte compiute, ma in chi pur non condividendole ha rinunciato ad opporsi. Parliamo del gruppo dirigente della FIOM e di quello della vecchia minoranza. Essi han scelto di cancellare i dissensi o almeno di non considerarli così rilevanti. I loro emendamenti sono privi di qualsiasi contenuto alternativo, in alcuni casi non si capisce se siano più a sinistra o più a destra, come quando si chiede la sanità integrativa regionale. Ma soprattutto non servono ad affermare contenuti, ma equilibri negli apparati. 

In questi anni Camusso e Landini han pubblicamente rappresentato due modelli sindacali diversi. Sarebbe stato un segno di salute della CGIL se questi due modelli si fossero misurati nel congresso. Invece le diversità son finite nel retroscena, dove vengon rivendicate con ancora maggiore asprezza, mentre la scena principale celebra la ricomposta unità del gruppo dirigente. Tutte le grandi organizzazioni aggravano le loro crisi comportandosi così. 

Si attenuano le differenze politiche, si accresce lo scontro di potere. Così una delle questioni principali che avrebbero dovuto essere affrontate, il rapporto con la politica ed in particolare con il partito democratico ed I suoi governi, si impadronisce del confronto di vertice. Lo SPI si è schierato con il perdente delle primarie del primo partito di governo. Ora Landini si schiera con Renzi, cioè con colui che tra i primi si schierò con Marchionne e che ha tra i suoi sostenitori tutta la classe politica torinese sostenitrice del capo della Fiat. E tutto questo avviene per una sola ragione, che si usano le scelte di collocazione politica per la lotta di potere interna alla CGIL. Dalla lotta per l'indipendenza alla massima dipendenza. 

In questo congresso delle unità di facciata e degli intrighi burocratici noi non eravamo e non siamo ancora previsti. Non era previsto che una piccola minoranza, cui fino all'ultimo si è cercato di impedire che raggiungesse il quorum per presentare un documento alternativo, si facesse carico dello scontento enorme verso un sindacato che non conta quasi nulla in proporzione alla sua dimensione, e che appare sempre più invischiato nei giochi di palazzo. 

Il rifiuto verso le nostre posizioni e ciò che esse vorrebbero rappresentare si è innanzitutto manifestato nei rapporti di forza negli apparati. Degli oltre 12000 funzionari e impiegati della CGIL solo un a ventina ha scelto il documento alternativo. Che naturalmente ha trovato molto più consenso tra militanti di base, che han deciso di impegnarsi a sostenerlo. Questo fatto però non ha commosso l'organizzazione. Non c'è stata gioia negli apparati nello scoprire che semplici lavoratori e pensionati volevano impegnarsi volontariamente nel congresso. Anzi finora questo volontariato, che tutti i leader son pronti ad esaltare nei talk show, è stato osteggiato in tutti i modi. Siamo una piccola minoranza, cosa costerebbe alle grandi strutture metterci in condizione di usufruire di un po' di par condicio nella campagna congressuale? 

Evidentemente la parità di condizioni congressuali costa, se viene così diffusamente negata. Costa perché in questi anni la vita interna della CGIL si è ancora più burocratizzata e sono dilagati conformismo e fedeltà personali. Costa perché affrontare almeno formalmente alla pari un dissenso, non è nelle capacità di tante strutture selezionate per anni sulla base dell'obbedienza. E costa perché non si vuole correre il rischio che emerga la crisi profonda dell'organizzazione, magari con dati realistici sulla effettiva partecipazione al voto da parte degli iscritti.

Così la burocrazia della CGIL fa di tutto per scoraggiare una partecipazione vera , frapponendo gli ostacoli più odiosi e sciocchi alla possibilità che i semplici militanti della minoranza possano far conoscere nei congressi le loro posizioni. Gli iscritti debbono solo far numero, non decidere davvero. 

Perché allora partecipare ad un congresso così negativamente segnato nei suoi contenuti e nella sua gestione? Per tre ragioni di fondo.

La prima è che la nostra voce è piccola, ma non debole e dove arriva suscita speranze e rifiuto della rassegnazione. In poche settimane siamo riusciti ad organizzare una piccola forza diffusa ovunque, senza apparati, senza sostegni, senza null'altro che la convinzione nelle nostre idee. E questo vuol dire che stiamo rispondendo ad un bisogno che non è solo di pochi militanti che non si arrendono al conformismo.

La seconda è che abbiamo un obiettivo realizzabile ed apertamente dichiarato. Probabilmente non riusciremo a vincere il congresso, ma sicuramente riusciremo ad organizzare una diffusa forza di opposizione alla passività burocratica della CGIL, una forza composta di lavoratori e pensionati, donne e uomini organizzati e intenzionati a farsi sentire. Alla fine del congresso saremo molto più forti di come ci siamo entrati e non ci scioglieremo.

La terza ragione è che i contenuti della nostra piattaforma delineano non solo una opposizione, ma un'alternativa di fondo al sindacato della concertazione e della passività. Per la prima volta in CGIL vengono sollevate rivendicazioni sull'economia e sull'Europa, sul salario e sull'orario, sui diritti e sulle condizioni sociali, che guardano al futuro e non solo alla difesa del presente. 

Il documento "Il sindacato è un'altra cosa" sta nelle lotte di oggi, ma guarda alla ricostruzione di un forte sindacalismo di classe indipendente e democratico, ancor più necessario oggi. Per questo mentre la maggioranza è totalmente autoreferenziale e guarda solo a CISL UIL e al PD, noi ci rivolgiamo anche ai sindacati conflittuali e ai movimenti sociali ed ambientali. Anche qui il congresso rappresenta solo l'avvio di un percorso.

Certo, tutto questo si scontra oggi con il boicottaggio che subiamo nell'esercizio dei nostri diritti congressuali. Dobbiamo per questo abbandonare il campo come ci chiedono, giustamente indignati, alcuni compagni? No dobbiamo fare della denuncia della sopraffazione che subiamo un elemento della nostra battaglia. Rivendicheremo le nostre scelte e cercheremo di diffonderne ovunque le ragioni, e dove questo ci sarà impedito ci faremo sentire e non solo dentro l'organizzazione. 

I comportamenti autoritari e burocratici che ci troviamo contro sono un altro aspetto della crisi della CGIL che denunciamo e combattiamo. Per questo essi non devono fermarci e non ci fermeranno. 


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UNA POLEMICA CON CHI NON CAPISCE LA BATTAGLIA IN CGIL
di Antonio Moscato



Ho visto con piacere che il bell’intervento di Giorgio Cremaschi appena inserito sul sito (Cremaschi: ha senso partecipare al congresso della CGIL? ) è stato subito letto molto, nonostante la giornata festiva. È un buon segno, anche se modesto. Nelle ultime settimane avevo riscontrato in giro parecchia indifferenza tra compagni per altri versi rispettabili. Diversi militanti del PRC erano del tutto indifferenti al fatto che il loro partito non si impegnasse nel suo congresso a sostenere la mozione alternativa, e fingesse di credere la FIOM ancora schierata sulle posizioni di anni fa, mentre altri compagni, appartenenti a sindacati “conflittuali” (come li chiama Cremaschi, anche se in realtà a volte sarebbe più corretto caratterizzarli solo come “extraconfederali”), hanno raccolto perfino le meschinità con cui parecchi quadri della FIOM hanno tentato di deridere questa battaglia attribuendola a piccoli calcoli di bottega. Una cosa non sorprendente, che avevo già verificato diverse volte nell’arco della mia lunga vita militante: chi si rassegna a capitolare e si prepara a rinunciare alle idee che aveva difeso fino al giorno prima (almeno nelle conversazioni private), quando si arrende non solo deve fingere di non capire dove sta andando il suo sindacato che rinuncia al ruolo che aveva avuto per anni, ma deve screditare chi continua la sua battaglia. Non possono dire che si arrendono perché i rapporti di forze (solo 20 schierati col documento “alternativo” su 12.000 funzionari e impiegati) sono sfavorevoli, e secondo i criteri vigenti fanno temere una rapida vendetta perché “hanno sputato nel piatto in cui mangiano”…

Ma se questi stipendiati che si arrendono possono far pena, mi indigna che anche chi non è impiegato o funzionario ripeta le insinuazioni calunniose contro chi presenta il documento alternativo, come se non sapessero che la descrizione fatta nel documento dei mali del sindacato, e della sua incapacità di agire sui mali terribili della classe operaia, è assolutamente veritiera

E mi rattristano soprattutto quei compagni che dall’interno dei sindacati extraconfederali tentano di ridicolizzare la battaglia di minoranza in CGIL, come se fosse finalizzata a un’impossibile conquista della confederazione, o a “ritagliarsi spazi di potere”. Come se non sapessero che le briciole del potere sono assicurate nei sindacati burocratizzati solo a chi ha rinunciato a combattere e a chi fa una finta opposizione, magari coperta da un insignificante emendamento per salvare la faccia. Come se non capissero che il documento "Il sindacato è un'altra cosa" guarda invece alla ricostruzione di un forte sindacalismo di classe indipendente e democratico, che servirebbe anche a loro, perché punta all’unità di classe proprio con il sindacalismo autorganizzato e con i movimenti sociali e ambientalisti, in contrapposizione a quella unità interclassista e soffocante con sindacati padronali come CISL e UIL (sotto il patronato PD) voluta dalla maggioranza CGIL e ormai anche dal gruppo dirigente della FIOM. La ricomposizione di un fronte sindacale classista darebbe a ogni sua componente, non ultima quella del sindacalismo autorganizzato, un carattere meno propagandistico e più capace di dare fiducia ai lavoratori.

Vorrei aggiungere qualcosa da un’ottica “professionale” di storico militante. Vorrei ricordare prima di tutto la straordinaria e franca discussione (anche se parziale come autocritica strategica) che Di Vittorio volle nel 1955 dopo la sconfitta della FIOM alla FIAT, di cui ho parlato a lungo nel mio articolo: La rinascita del sindacalismo

Quanto più sarebbe necessaria oggi, tenuto conto del ben più grave danno arrecato al maggiore sindacato italiano dalla linea seguita negli ultimo trenta anni!

Ma a proposito di questa difficile battaglia di minoranza vorrei aggiungere un commento che un grande conoscitore dell’impero austroungarico, Leo Valiani, fece a proposito della penosa fine, nel febbraio 1934, del grande partito socialista austriaco, che aveva dominato la scena per quindici anni con il 70% dei consensi a Vienna e che disponeva da anni di una milizia di autodifesa (Schutzbund) di ben 120.000 uomini, contro i soli 40.000 a cui l’esercito era obbligato per effetto delle imposizioni della pace di Versailles.

Mentre gli apologeti dell’austromarxismo (a cui si sono ispirati tutti i maggiori esponenti della sinistra sindacale” italiana, compreso Fausto Bertinotti) hanno sempre sorvolato sulla tragica sconfitta a cui la classe operaia austriaca era stata portata dall’attendismo dei suoi dirigenti, Valiani condivideva (nonostante la lontananza delle posizioni politiche) le osservazioni di Trockij:

Certamente la lotta armata dei socialdemocratici austriaci era disperata nel febbraio 1934; avrebbero dovuto prendere le armi già nel ’27 e nel ’33, o meglio ancora già nel ’19. Però va a loro onore l’essersi ugualmente opposti con le armi alla soppressione della democrazia (…). La democrazia, intesa come libertà d’esistenza legale del movimento operaio, va difesa con qualsiasi mezzo, anche quando non c’è speranza di vincere. (cito dal mio libro Trockij e la pace necessaria, Argo, Lecce, 2007, p.121)

La battaglia in CGIL non è certo paragonabile a quella tragica sconfitta del proletariato austriaco, che aprì le porte al nazismo (quando poté realizzare l’Anschluss, Hitler non dovette cambiare molto, l’austrofascismo aveva preparato il terreno). Ma mi ha colpito sempre il riconoscimento di Valiani alla posizione di Trotskij: bisogna saper combattere anche quando non c’è speranza di vincere. È la stessa posizione che ho poi trovato in Guevara, e che invece ha sempre avuto poca cittadinanza nella sinistra anche sedicente “rivoluzionaria” italiana, sempre pronta a denunciare il “minoritarismo” e ad accettare ogni infamia come “minor male”.

a.m.

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