domenica 23 giugno 2013

RELAZIONE DI PIER LUIGI CECCARDI PRESIDENTE DI FEDERMECCANICA ALL'ASSEMBLEA GENERALE



Pubblichiamo la relazione di Pier Lugi Ceccardi, Presidente uscente di Federmeccanica, all'assemblea generale dell'associazione. In grassetto la parte riguardante il protocollo d'intesa firmato da Confindustria Cgil-Cisl-Uil. La relazione si trova sul sito nazionale di Federmeccanica.


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Autorità,

Signore e Signori,

care Colleghe e cari Colleghi,

gli anni della mia presidenza di Federmeccanica, che oggi si conclude, hanno coinciso con la più grave crisi che l’economia italiana abbia sofferto almeno a partire dalla seconda guerra mondiale.

Oggi la produzione metalmeccanica è inferiore di circa un terzo rispetto a quella realizzata prima della crisi; in Europa nessuno è stato risparmiato dai colpi della recessione ma noi siamo tra quelli che più ne hanno sofferto.

I dati del PIL nel primo trimestre sono pessimi e la nostra recente indagine congiunturale mostra il perdurare e, se possibile, l’approfondirsi della crisi che investe l’industria metalmeccanica italiana.

Le previsioni di ripresa vengono costantemente spostate in avanti di semestre in semestre ma, al momento, non si individuano segnali di mutamento della tendenza.


Ciò nonostante spero che il mio successore possa operare in un contesto economico e industriale migliore dell’attuale; lo spero per lui ma soprattutto lo spero per le imprese e per i lavoratori del più importante settore industriale italiano.

Un settore fondamentale:
per il peso che ha nel sistema produttivo;
per il contributo che dà alla tenuta dei nostri conti con l’estero;
per il ruolo strategico che assolve, essendo la principale fonte di creazione e diffusione dell’innovazione tecnologica.

Ma è tutta l’industria, la spina dorsale che consente al Paese di stare ancora in piedi, ad essere in grave affanno. Un mese fa, nella sua relazione all’Assemblea generale di Confindustria, il Presidente Squinzi ha ricordato a tutti quali sono i malanni e anche quali le terapie possibili. Tutti, compresi politici e sindacalisti, hanno concordato sulla diagnosi ma, come sempre, le terapie fanno fatica ad essere attivate.

La recente uscita dalla procedura d’infrazione per deficit eccessivo è un primo risarcimento per i sacrifici fatti e costituisce la precondizione per ogni passo successivo ma, evidentemente, non basta a risolvere i nostri problemi.

A noi interessano poco le dispute accademiche tra i sostenitori del rigore e quelli della crescita. Non c’è rigore che tenga se non c’è crescita, e, infatti, il rapporto debito/Pil continua a deteriorarsi, così come, per un Paese indebitato come il nostro, la crescita non può realizzarsi in assenza di rigore, e infatti mentre la spesa pubblica è costantemente aumentata il Pil è sceso di sette punti in cinque anni.

Occorrono buon senso, concretezza ed equilibrio; per questo condividiamo l’opinione di chi ritiene necessario ottenere dall’Europa una diluizione temporale dell’obiettivo di deficit, come Francia e Spagna, e un diverso criterio di computo degli investimenti pubblici che non possono essere considerati alla stregua della spesa corrente. Ciò aprirebbe spazi importanti per decise politiche di sostegno alla crescita nel nostro Paese.

Ma la dimensione nazionale non è più sufficiente; è l’Europa che deve mettere in atto un deciso mutamento di segno nelle proprie politiche al fine di contrastare le minacce di declino che riguardano l’intero continente e che la stessa Germania comincia a prendere in considerazione.

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La stampa quotidiana è un bollettino di guerra che racconta impietosamente di imprese che chiudono, di nuova disoccupazione, di giovani che rischiano di non avere mai una opportunità di lavoro.

In questi cinque anni l’industria manifatturiera ha perso oltre mezzo milione di posti di lavoro di cui quasi duecentomila nel nostro settore a cui andrebbero aggiunte altre centomila unità coperte da cassa integrazione.

Troppe sono le imprese vittime di carenza di liquidità: occorre accelerare il pagamento dei crediti che le imprese vantano nei confronti della pubblica amministrazione così come vanno rapidamente riattivati i canali del credito all’economia.

E vorrei sottolineare che un grande Paese industriale come il nostro, il secondo in Europa e il settimo nel mondo, non può essere privo di una politica industriale che non significa semplicemente sostenere l’industria ma effettuare scelte e agire di conseguenza: come fanno tutte le nazioni industriali nel mondo. Il messaggio che ci viene dagli Stati Uniti che rilanciano la manifattura come essenziale e solido veicolo di crescita economica, non può essere ignorato.

NON C’E’ PIU’ TEMPO, i provvedimenti necessari per dare impulso alla crescita vanno presi ed attuati ADESSO perché domani potrebbe essere troppo tardi.

Quando i conti delle nostre imprese vanno in sofferenza noi imprenditori sappiamo che dobbiamo attuare politiche di rigore ristrutturando e tagliando costi, ma sappiamo anche che dobbiamo investire ed innovare per riprendere il cammino della crescita con una rinnovata capacità competitiva dei nostri prodotti.

La stessa cosa deve fare lo Stato: tagliare la spesa improduttiva, ristrutturare i propri apparati, investire. Se questo avviene siamo ancora in tempo a rimettere in moto il circuito virtuoso della crescita: meno spesa improduttiva, meno tasse su lavoro e imprese, più domanda interna da consumi e investimenti, più produzione, più occupazione.

Ho detto meno tasse su lavoro e imprese perché questo è un passaggio obbligato ed urgente per il nostro settore produttivo che deve sopportare condizioni di assoluto svantaggio nei confronti dei suoi competitori quanto a pressione fiscale.

Per questo il taglio al costo del lavoro per favorire l’assunzione dei giovani è un’ottima iniziativa ma non si deve dimenticare che la riduzione del cuneo fiscale è fondamentale per la competitività delle imprese e quindi per la tutela dei livelli occupazionali in generale. A questo proposito, sia detto per inciso, non è affatto un bel segnale che il pur necessario rifinanziamento della Cassa Integrazione in deroga venga effettuato con storni di risorse destinate allo sgravio sui premi di risultato e attingendo alle casse dei Fondi Interprofessionali per la formazione continua.

Tuttavia, anche interventi indispensabili ed urgenti su questo o quel fattore di competitività rischiano di essere non sufficienti se non si accompagnano ad una diversa considerazione, sociale e politica, del ruolo dell’industria e, più in generale, del fare impresa in Italia.

Non possiamo non rilevare, con sofferenza, che esiste una cultura diffusa talvolta addirittura ostile all’impresa ma essenzialmente non coerente con le esigenze di un moderno Paese industriale. Questa cultura produce paralisi: un sistema normativo asfissiante ed una legislazione fiscale che frena lo sviluppo, un apparato burocratico auto-referenziale ed una politica delle infrastrutture spesso annichilita da miopi localismi o da minoranze rumorose, una gestione del contingente cui è estranea qualsiasi progettualità di medio-lungo periodo.

La capacità, l’intelligenza, la volontà ed anche i sacrifici dei nostri imprenditori e dei nostri lavoratori sono spesso soffocati da questa zavorra; siamo nel 2013 ma i “lacci e lacciuoli” denunciati da Guido Carli nel 1977 sono sempre lì, addirittura accresciuti.

Se siamo agli ultimi posti nella classifica di attrazione degli investimenti diretti esteri e se ogni anno sono centinaia e centinaia le imprese che decidono di lasciare il nostro territorio per spostarsi di qualche decina di kilometri più in là, in Slovenia, piuttosto che in Carinzia o, addirittura, in Svizzera, un motivo, o tanti motivi, dovrà pur esserci.

Abbiamo tutte le possibilità di invertire queste tendenze; le condizioni politiche esistono, dobbiamo solo volerlo.

Il Governo ha annunciato l’emanazione a breve di un “decreto del fare”; il nome è suggestivo e i propositi sembrano buoni. Siamo impazienti di vedere il “fare” tradotto in “fatti”.

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Oggi, per me, è il momento dei bilanci, un’occasione per riflettere insieme sulle scelte compiute e su quelle che ci attendono.

Ho assunto la presidenza di Federmeccanica cinque anni fa, nel momento in cui esplodeva la crisi. Sono stati anni molto difficili, non solo sotto il profilo economico ma anche sindacale; anni in cui la capacità di tenuta dell’organizzazione è stata messa sotto pressione. Chi di voi ha memoria del clima, alimentato anche da alcuni organi di stampa, in cui veniva messa in discussione la sopravvivenza stessa della nostra Federazione, può ben comprendere ciò che intendo dire.

Tutto questo è avvenuto in un contesto non semplice anche per la decisione della Fiat di lasciare Confindustria e, quindi, anche Federmeccanica.

Oggi quella fase, contrassegnata da un serrato dibattito nella nostra organizzazione, può considerarsi superata.

Proprio nei giorni scorsi ho firmato il testo finale del contratto nazionale 5 dicembre 2012 e, voglio dirlo, sia i suoi contenuti e sia il consenso che ha raccolto tra le imprese e nel sistema associativo, sono la migliore conclusione della mia Presidenza.

Con questo contratto abbiamo realizzato gli obiettivi che ci eravamo prefissi e, nello stesso tempo, abbiamo tenuto ben saldo il punto che Federmeccanica rappresenta un vasto universo di imprese piccole e grandi, con caratteristiche ed esigenze diverse alle quali occorre dare risposte comuni, al più alto livello di sintesi possibile. Questo è il senso dello stare insieme in un’organizzazione ed è questo che ci ha consentito di superare positivamente un frangente di obiettiva difficoltà.

Non posso negare, parafrasando un grande statista italiano, che in certi momenti ho sentito che tutto era contro di me, salvo la personale cortesia di Voi colleghi.

Ma da quelle difficoltà ho tratto la determinazione di uscirne ripartendo da un serrato dialogo e confronto con il sistema, con le imprese e con le loro strutture di rappresentanza.

Oggi, con un certo orgoglio, posso affermare che Federmeccanica ha svolto il suo ruolo, con determinazione e ragionevolezza, al fianco e al servizio delle imprese.

Lascio al mio successore una Federmeccanica coesa e partecipata, vicina alle imprese e attenta interprete delle loro esigenze. Una Federmeccanica credibile e rispettata dai nostri interlocutori sindacali, sia da quelli con i quali abbiamo registrato sintonia di vedute che dagli altri con i quali, ne sono certo, torneremo a registrare convergenze. A questo proposito, vorrei rendere atto ai Segretari dei sindacati metalmeccanici, tutti indistintamente, del rapporto di reciproca stima e rispetto che c’è stato in questi anni, anche nei momenti più complicati.

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Le relazioni sindacali e contrattuali costituiscono un cardine fondamentale per la gestione e la competitività delle imprese e quindi per la crescita economica.

Stiamo compiendo un percorso di profonda trasformazione del nostro sistema di relazioni sindacali. C’è un filo rosso che lega gli Accordi Interconfederali del 2009, del 2011, 2012 e quello recentissimo del 31 maggio 2013 sul quale tornerò più avanti. Così come c’è un filo rosso che unisce i nostri contratti di categoria del 2009 e del 2012. Questo filo è costituito dalla necessità di adattare al contesto economico attuale un sistema sindacale e contrattuale formatosi in anni caratterizzati da contesti strutturalmente diversi.

Oggi dobbiamo quanto più possibile allineare la dinamica dei salari a quella della produttività, come ci è stato recentemente raccomandato dalla Commissione Europea, e dobbiamo creare le condizioni affinché le relazioni sindacali possano rappresentare non un ostacolo ma una risorsa per l’efficienza delle nostre imprese.

Dobbiamo contrastare la perdita di competitività connessa ad un andamento sfavorevole del costo del lavoro per unità di prodotto, controllando le dinamiche salariali e soprattutto incrementando la produttività in tutte le sue componenti.

Possiamo farlo dando maggior peso al livello aziendale e introducendo più flessibilità in quello nazionale.

Il contratto nazionale oggi ha un valore solo se è in grado di tenere insieme le diversità e le esigenze delle migliaia di imprese che Federmeccanica rappresenta. Un tempo il contratto nazionale regolava l’omogeneità, ora deve rispondere alle diversità; oggi, a differenza del passato, il mercato delle nostre aziende è il mondo ed ogni azienda affronta la competizione con i propri prodotti, le proprie tecnologie, i propri modelli organizzativi, il proprio stile di relazioni sindacali.

E’ il passaggio dal fordismo al post-fordismo, dai mercati locali alla globalizzazione, dai cicli economici lunghi e regolari alla instabilità ed erraticità della domanda. In un contesto così trasformato, cosa della quale tarda a convincersi una parte del sindacato, la diversità da azienda ad azienda è oggi il tratto di gran lunga prevalente.

E’ per questo che il contratto nazionale, per essere ancora utile, deve essere flessibile ed adattabile agli specifici contesti aziendali. In questa contingenza economica, in particolare, deve essere utile a quella parte di aziende che opera prevalentemente per il mercato interno e che oggi necessita essenzialmente di contenere i costi a fronte di una domanda in regresso ma anche a quelle aziende che beneficiano ancora di una domanda estera in crescita e che hanno bisogno essenzialmente di incrementare la produttività e disporre della più ampia flessibilità possibile.

Avendo sempre ben a mente anche la specificità della struttura dimensionale delle imprese italiane, questo è quello che abbiamo cercato di fare con il contratto. Consentire a quell’80% di aziende associate con meno di 50 dipendenti che spesso non ha neanche rappresentanza sindacale, di poter disporre di uno strumento indispensabile alla gestione ordinata delle relazioni di lavoro, ma anche consentire a quelle imprese che hanno una prassi di relazioni sindacali in azienda di poter adattare al meglio le norme alle proprie specificità.

Per questo con i rinnovi contrattuali del 2009 e del 2012 abbiamo prima introdotto la derogabilità del contratto di categoria con accordo aziendale e poi abbiamo dato contenuto normativo alla flessibilità prevista nel contratto nazionale. Quella salariale, con la possibilità di spostare la decorrenza delle tranche, e quella degli orari definendo un congruo pacchetto di ore tra straordinari al sabato, orario plurisettimanale e possibile monetizzazione dei permessi annui retribuiti (Par), direttamente attivabili dalle imprese in caso di esigenze produttive.

Molti altri sono i contenuti innovativi del contratto ma non posso non citare, avendola perseguita con costanza e determinazione, la norma che, al fine di contrastare l’assenteismo ed incrementare la produttività, interviene sul trattamento economico delle assenze brevi di malattia.

Abbiamo cercato, in sostanza, di realizzare gli obiettivi che le imprese ci avevano affidato in una logica di equilibrata e sostenibile compensazione con le richieste sindacali.

Questo è il senso delle cose fatte in questi anni, consapevoli che siamo in un percorso ancora incompiuto ma solidamente avviato.

Su questo percorso, fatto di concretezza e privo di ideologismi, abbiamo registrato larghe convergenze con la Fim e con la Uilm, delle quali abbiamo apprezzato l’impegno per realizzare relazioni sindacali nuove e moderne, ma non abbiamo avuto la condivisione della Fiom.

Ciò accade, se pur con fasi alterne, a partire dal 2001. Non essendoci alcuna volontà da parte nostra di escludere dalla dialettica contrattuale un sindacato del quale conosciamo storia e rilevanza, è evidente che ciò che ostacola la desiderata stabilità nei rapporti è la perdurante esistenza di nodi di politica sindacale non risolti. Un solido indizio circa l’origine di queste difficoltà credo sia rinvenibile nello Statuto della Fiom laddove, cito, “ribadisce il carattere antagonistico dei rapporti tra Sindacato e padronato pubblico e privato”; noi, invece, riteniamo che solo relazioni cooperative e partecipative siano in grado di sostenere le sfide di questo secolo.

Federmeccanica ha sempre agito con piena chiarezza e trasparenza. Ciò nonostante la Fiom ha preteso di portare sia le singole imprese che Federmeccanica stessa nelle aule di tribunale per veder riconosciute dai giudici presunte violazioni di legge a suo danno. Al contrario, i tribunali aditi, nel respingere i ricorsi della Fiom, hanno pienamente confermato la legittimità del nostro operato.

Quindi, tutta la strategia giudiziaria praticata in questi ultimi due/tre anni dalla Fiom ha procurato qualche fastidio alle imprese e dato un po’ di lavoro agli avvocati, ma non ha certo portato vantaggi a chi l’ha promossa.

D’altra parte, anche sul piano dell’azione sindacale le cose non sono andate diversamente; la campagna di vertenze aziendali e territoriali decisa a gennaio scorso e finalizzata a rendere inapplicabile il Ccnl del 2012 ha prodotto, secondo quanto è rilevabile dal sito della Fiom, una ventina di accordi in tutta Italia che riguardano due o tre mila lavoratori su oltre un milione di metalmeccanici.

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Tuttavia, oggi c’è un fatto nuovo ed importante che può determinare un cambiamento vero nelle relazioni sindacali; alludo, naturalmente, al Protocollo d’Intesa fra Confindustria e Cgil, Cisl, Uil del 31 maggio scorso. Un accordo che si compone di due capitoli, Misurazione della rappresentatività e Titolarità ed efficacia della contrattazione; questioni centrali nelle vicende sindacali del nostro settore.

Ho già avuto modo di dire che Federmeccanica è soddisfatta dell’Accordo e per questo voglio sinceramente ringraziare il Presidente Squinzi e il Vice Presidente Dolcetta per il lavoro fatto.

Siamo soddisfatti perché l’accordo dà una risposta positiva all’esigenza da noi fortemente sottolineata di dare regole certe e condivise alla contrattazione di categoria al fine di garantire l’esigibilità dei contratti sottoscritti.

Il Protocollo del 31 maggio, meritoriamente, regola procedure, ruoli e criteri di selezione degli attori contrattuali e stabilisce l’efficacia dei contratti sottoscritti a maggioranza anche nei confronti di eventuali sindacati dissenzienti.

D’ora in poi, avendo scelto di adottare il principio maggioritario come criterio dirimente in caso di posizioni non unitarie tra i sindacati, le minoranze saranno impegnate a non promuovere iniziative di contrasto al contratto (né scioperi né altro), mentre le maggioranze avranno la responsabilità di realizzare le convergenze necessarie per rinnovare i contratti.

Trattandosi di un accordo di “principi” è necessario ora definire una disciplina attuativa, sia a livello confederale che di categoria, ma l’indirizzo è quello giusto per arrivare a contratti condivisi, certi ed efficaci nei confronti di tutti i soggetti coinvolti.

Un elemento di difficoltà potrebbe derivare dall’aver rinviato alle categorie la definizione di clausole sanzionatorie a sostegno dell’esigibilità nei confronti di eventuali soggetti inadempienti, tuttavia il carattere precettivo con il quale il rinvio è definito è senz’altro un buon viatico per i contratti a venire.
Credo, quindi, che di questo accordo potrà proficuamente avvalersi il sistema contrattuale nel suo insieme ma in particolare la nostra categoria, nella quale di più hanno pesato le divisioni sindacali e l’incertezza delle regole; per questo Federmeccanica ha convintamene contribuito alla sua realizzazione.

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Sono alla conclusione della relazione e del mio mandato e, quindi, è il momento dei ringraziamenti che, assicuro, non sono per niente formali e di circostanza ma sentiti e sinceri.

Ringrazio anzi tutto i colleghi Vice Presidenti e i componenti del Consiglio Direttivo con i quali ho condiviso più direttamente problemi, dubbi e decisioni.

Ringrazio i colleghi componenti la Giunta e l’Assemblea per la loro vicinanza, lealtà e capacità di interpretare e rappresentare le istanze delle imprese.

Ringrazio la struttura di Federmeccanica che ha in ogni momento saputo esprimere dedizione e professionalità, supportando e traducendo in operatività le scelte compiute.

In sostanza, ringrazio tutti Voi che mi avete accompagnato in questi sofferti ma straordinari anni della mia vita professionale.


Genova, 14 giugno 2013 

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